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giovedì 2 settembre 2021

Amatissima - Toni Morrison

Uno dei miei piaceri più grandi è scoprire un nuovo (per me) scrittore attraverso un altro scrittore che lo cita o ne parla, suscitando la mia curiosità: è come scartare un cioccolatino con un involucro scintillante e colorato.
Questo è stato il caso di Toni Morrison, pseudonimo di Chloe Ardelia Wofford nata a Lorain il 18 febbraio 1931 e morta a New York il 5 agosto 2019, a me totalmente sconosciuta, ammetto la mia profonda ignoranza, citata da James Patterson in uno dei suoi gialli. Ne ho cercato subito notizie, perché stimo molto il personaggio che la nomina nel libro di Patterson, che mi ricorda mia nonna.
Scrittrice e accademica, Premio Pulitzer (1988), prima afroamericana a vincere il Nobel per la letteratura (1993). Un curriculum di grandissimo rispetto, conseguito in un periodo, si guardi la data di nascita, in cui essere afroamericana e donna ti collocava subito in fondo alla coda di coloro che volevano accedere a qualche forma di istruzione, per non parlare di un impiego qualificato. La sua assoluta assenza dalla sfera delle mie conoscenze mi ha umiliato e mi ha confermato una volta di più che ho ancora tanto da imparare.  
Ho cercato i suoi libri, ho letto la prima opera, “L’occhio più azzurro” e poi il romanzo che le è valso il Pulitzer, “Amatissima”. La scoperta è stata devastante. Nel drappo blu che avvolge la mia mente e da cui la luce filtra attraverso i buchi creati dai libri letti, si è aperta una larga fenditura, come tagliata da un’accetta, da cui la luce è entrata a fiotti. I temi trattati sono ovvi, per un’afroamericana: crudeltà della schiavitù, negazione dei diritti umani, condizioni di povertà e ignoranza in cui si sono trovati gli schiavi “liberati” dopo la guerra di secessione, orrori ancora più sofferti dalle donne, in quanto ultimo anello della catena delle sopraffazioni. Ovvi, appunto. La banalità del male. Ma la trattazione non lo è. La Morrison ti scioglie la pelle, così importante e così citata nei suoi romanzi, scioglie i confini del tuo io, della consapevolezza che hai di te e della tua sicurezza, e poi ti inserisce in una pelle nuova, un nuovo confine tra te ed il mondo, che percepisce, subisce, assapora tutto in modo diverso, intenso e doloroso. La sua scrittura ti versa in una membrana che riceve mille stimoli, tutti eccessivi. I colori, i sapori, gli odori contribuiscono ad inasprire il dolore provocato dal male, che subisci perché lo senti come tuo, e che vedi subire. Scopri nuovi aspetti della crudeltà che non avevi sospettato, immaginato, creduto possibile. 
La schiavitù è la sopraffazione violenta del più povero, del più debole, del più ingenuo e, viceversa, la sopraffazione violenta, non importa attraverso quali strumenti, è schiavitù. Prima, sapevi che la schiavitù è crudele in modo asettico, generalizzato, sfocato. Dopo, attraverso i tuoi nuovi pori, percepisci i particolari dell’orrore e della paura. Il diavolo è nei dettagli: Il morso di metallo che hai in bocca ha un sapore metallico e amaro, ti ferisce la lingua, ti irrita i lati della bocca e, una volta tolto, ti blocca il viso in una specie di sorriso sciocco; piccole cose della vita quotidiana, la zangola del burro, il gallo con la cresta rossa, un certo cappello, un certo quaderno, i mirtilli selvatici, entrano nel tuo riposo notturno e si trasformano in incubi. 
La paura, sempre presente, sempre subliminale, di essere “riportato indietro” ti fa scattare, ti fa correre, ti fa uccidere, ti fa fare cose che non credi possibili, che non riconosci, che non ricordi. Si entra in una sindrome da stress postraumatico lunga tutta una vita e trasmessa ai figli e ai nipoti, piena di dettagli insignificanti che, come i pezzetti di carta colorati di un caleidoscopio, si moltiplicano e creano immagini impressionanti. 
Gli schiavisti, i “bianchi”, non sono volutamente crudeli, non hanno il sadico desiderio di infliggere dolore, ma la fredda ed efficiente avidità che muove le loro azioni li rende agghiaccianti. Imprigionati nella loro pelle bianca e refrattaria, sono sordi e ciechi come certi vermi che vivono nelle profondità delle caverne; sordi e ciechi alle sofferenze altrui, al male che fanno, inconsapevoli della fossa di fango, di un metro per due, in cui è imprigionata la loro anima: per loro non basteranno il canto degli uccelli e la pioggia scrosciante per farli evadere. Il dolore che seminano metterà radici e produrrà un albero come quello sulla schiena di Sethe, un albero immenso i cui rami si estenderanno attraverso le generazioni. 
Toni Morrison riesce a farti vivere la schiavitù e l’esperienza è terribile e illuminante allo stesso tempo. 
L’acqua del fiume, la pioggia, il sole, le stagioni, la foresta, le lacrime, il sangue, persino i succhi delle erbe schiacciate, contribuiscono ad una narrazione di tipo biologico, animistico, della Storia, accogliendo e inglobando al suo interno tutti gli aspetti, il male e il bene, il dolore e la gioia, la sofferenza e la pace, assimilandoli e creando vita vera. Niente potrebbe essere più femminile.

venerdì 17 luglio 2020


Cronache di un venditore di sangue


Autore: Yu Hua
Editore: Feltrinelli



“ Una grande storia - al contempo commovente e ottimistica, grottesca e tragica - in uno dei più importanti romanzi della letteratura cinese contemporanea. Una storia per certi versi epica che racconta trent'anni della vita di Xu Sanguan, un lavoratore che trasporta tutto il giorno bachi in un grande setificio. Il protagonista vive con una moglie molto bella ma capricciosa e tre figli di cui va orgoglioso: Felice Uno, Felice Due, Felice Tre. Aiuta la sua famiglia a sopravvivere durante i duri anni della Rivoluzione culturale. E lo fa vendendo il proprio sangue nei momenti più difficili e importanti (in realtà una pratica ancora oggi realmente diffusa in Cina). Ma il sangue è anche una sorta di talismano: è un dono degli avi, e per questo non va sprecato... “

Dal racconto della vita di Xu Sanguan, operaio in una fabbrica di seta, emerge la figura di un uomo concreto, un brav'uomo che ama i suoi figli, che vende il suo sangue per tenere la fame e la miseria lontane dalla sua famiglia. La sua vita, tra alti e bassi, avanza parallela alla tragica storia della Cina in quegli anni e ne diventa metafora. Il protagonista descrive la sua dura esistenza senza autocommiserazione, ma come un dato di fatto, una cosa normale; racconta delle difficoltà (e anche delle tragedie) che affronta non con rassegnazione ma con una consapevolezza del proprio posto nel mondo che fa pensare a un albero, un antico albero con le radici ben affondate nel terreno e con i rami che si muovono al vento. Certo non mancano i momenti di dolore e di disperazione, ma sono fisiologici, sono passaggi necessari per poi riprendere a vivere. Persino l’ostinato rifiuto del primogenito, che ha scoperto non essere suo figlio biologico, alla fine viene superato, attraverso la compassione. L’ultimo sangue versato, a rischio della propria vita, viene venduto proprio per soccorrere questo figlio, amatissimo malgrado tutto, che giace malato, da solo, in un luogo lontano dagli affetti. Non definirei quest’uomo un eroe, perché avrei timore di fargli torto. Piuttosto direi che è un padre, nel senso confuciano del termine, in un senso che è anche vicino al sentire mediterraneo, per quanto possa sembrare strano.

giovedì 7 maggio 2020


Cyber China


Autore: Qiu Xiaolong
Editore: Marsilio


"Armonia e integrità: stando ai media ufficiali, il modello cinese è un successo. Ma su internet, la rabbia dei cittadini si scatena. Zhou, un funzionario della municipalità di Shanghai, è il bersaglio perfetto per questo nuovo genere di caccia alla corruzione. Una sua foto con in mano un pacchetto di sigarette di lusso infiamma la rete. Due settimane più tardi, viene trovato impiccato. È stato davvero un suicidio? Sotto l'occhio vigile delle autorità di Partito, preoccupate di quel formidabile movimento che agita la rete, l'ispettore capo Chen, assistito da Lianping, giovane e affascinante giornalista, indaga sul mondo dei blog clandestini, dove la censura rossa si rivela impotente. Smarrito tra i nuovi grattacieli che spuntano come germogli di bambù in una città schiacciata da una corruzione e un'ingiustizia sempre più sfacciate, Chen assiste alla trasformazione del suo Paese in un'enorme ragnatela di relazioni onnipresenti, dove ogni filo è collegato da interessi comuni, intrighi e segreti condivisi. E dove anche a un ispettore capo di polizia viene richiesto di fare il proprio lavoro coscienziosamente, purché non intralci il quadro più ampio."

Nell’ottavo dei romanzi di Qiu Xiaolong dedicati all’ispettore capo Chen Cao, pubblicato in Italia con il titolo “Cyber China”, il protagonista sembra giunto ad un svolta. Potrebbe essere trasferito a Pechino e “promosso”, per essere distolto da un’indagine particolarmente “speciale”. Ironia vuole che la ragione per cui gli è stata affidata, la sua reputazione di funzionario integerrimo, è anche il motivo per cui potrebbe essergli strappata. Qui possono venirci in mente certi nostri giudici coraggiosi e tenaci, prima esaltati e poi abbandonati, una volta rivelatisi troppo efficaci. Per Chen l’eventualità di smettere di essere un poliziotto sarebbe devastante. La carriera che gli è stata imposta da una struttura statale miope, per sfruttare la sua istruzione e la sua conoscenza dell’inglese, è diventata parte integrante della sua personalità, la solida struttura che sostiene e lega alla terra il suo spirito fin troppo evanescente. Il corpo estraneo inserito nella carne molle si è trasformato in perla. Separare Chen da quel nucleo prezioso, ottenuto con grande fatica e determinazione, potrebbe lacerarlo profondamente.
E’ fonte di turbamento e di riflessione constatare che, in qualunque parte del mondo, le persone dotate di una sensibilità etica sono in continuo conflitto, con sé stesse e con le istituzioni, soprattutto quando ne fanno parte. L’onestà non è un monumento al centro di una piazza, immobile e granitico. E’ un fiume che scorre, a volte più lento, a volte più rapido. Le scelte fatte, le altre anime incontrate vi confluiscono e lo alimentano, come ruscelli montani. Veniamo tentati in mille modi diversi ed è difficile mantenere la rotta, intravvedere i gorghi. L’azione considerata innocua o addirittura generosa, può rivelarsi un errore, qualcosa che ci allontana dal percorso tracciato. Un proverbio cinese dice che non si può attraversare lo stesso fiume: l’acqua scorre e il fiume cambia, continuamente.
Nei romanzi di Qiu Xiaolong si avverte questo conflitto, che aumenta con il progredire della carriera di Chen Cao. Personaggio malinconico e tormentato, da bravo poliziotto non può fare a meno di conoscere, di arrivare al nocciolo degli eventi di cui è testimone. Ma il soggetto principale delle sue indagini è, soprattutto, sé stesso. L’essere poeta e quindi creatura addestrata alla percezione della bellezza e dell’armonia, aggiunge uno strumento di comprensione, ma anche di tortura, alla sua intelligenza. La sensibilità, l’empatia particolarmente intense, perché rafforzate dall’animo di poeta, sono le armi vincenti di quest’uomo solitario, ma sono anche ciò che lo rende vulnerabile e che spesso lo allontana da possibili spiriti affini. La tentazione di rifugiarsi nei brevi attimi di appagamento raggiunti nell’ammirazione della natura e della bellezza è in lui fortissima ma sempre combattuta, in nome di un astratto ideale di dovere che però, proiettato nella quotidianità, diventa incredibilmente concreto.
Ci sono cose che un uomo farà e cose che un uomo non farà. E’ il detto che il padre dell’ispettore, neoconfuciano, ripete spesso, forse anche a sé stesso, durante i terribili eventi della Rivoluzione Culturale. Anche se perduto molto presto, questo padre filosofo è una continua fonte di ispirazione per Chen, il nume tutelare a cui spesso si rivolge, anche inconsciamente quando ne ripete i motti preferiti, nei momenti di incertezza. Nel momento di massima tensione, con l’indagine che si intuisce conclusa con esiti sconvolgenti, l’uomo delle istituzioni, leale al Partito, soppesa e decide di Fare. Di mettere fine, in qualche modo, alla logica del mantenimento dello status quo, chiamato Armonia dagli apparati di stato, con inconscia autoironia.
Il punto focale non è la conclusione del caso, di cui non si parla, ma la decisione, l’ennesimo flusso che va ad alimentare il fiume e gli permette di non inaridirsi.
Chen Cao, cinese di Shangai, può essere qualunque uomo, di qualunque nazione, che cerca di fare ciò che è giusto per sé e per la società, di far scorrere il fiume dell’onestà in un flusso costante, mantenendo gli argini intatti, facendo scelte difficili e a volte apparentemente contraddittorie, come la corrente che risale il fiume sotto la spinta delle maree.

giovedì 23 aprile 2020

L’arte di Annacarsi


L’arte di Annacarsi


Autore: Roberto Alajmo
Editore: Laterza


“Annacare/annacarsi è in dialetto siciliano un verbo insidioso, difficilmente traducibile in italiano. Quel che più si avvicina è cullare/cullarsi, ma non è proprio la stessa cosa. L'arte di annacarsi prevede il muoversi il massimo per spostarsi il minimo. Una immagine che descrive bene lo spirito dell'isola e più ancora la disposizione d'animo dei siciliani tessuta di diffidenza. Ogni viaggio in Sicilia, anche quello intrapreso in questo libro, diventa una specie di danza immobile attorno alla geografia e alla filosofia, alla storia, al folklore e alla gastronomia, scoprendo che fra le diverse discipline esistono continui rimandi a una trama inestricabile. "Pur restando immobile, l'Isola si muove. Non è uno di quei posti dove si va a cercare la conferma delle proprie conoscenze. È invece un teatro dove le cose succedono da un momento all'altro. È un susseguirsi di scatti prolungati, pause per rifiatare e ancora fughe in avanti". Come l'Isola, Alajmo procede a zig-zag in un itinerario non lineare, senza vincoli di percorso né di tempo, da un capo all'altro, sulla base di pure suggestioni, guidato dalla bellezza, accompagnato da un lucido pessimismo. Come un atto d'amore che non si nasconde nessuna vergogna dell'oggetto amato: capita di innamorarsi di una canaglia. E anche se lo sai, che puoi farci?”

Libro dolce e saporito come un cannolo siciliano, percorre tutta la Sicilia ed accompagna il lettore in un viaggio di altri tempi. Tutto ciò che vi è di bello in questa isola viene descritto e raccontato come se a farlo fosse un cantastorie ironico e apparentemente cinico, che non riesce a nascondere l’affetto e il senso di appartenenza (o di possesso?) per una terra unica nel suo genere. All’inizio l’autore sembra voler fare da guida mantenendo un distacco scientifico, da antropologo. Poi man mano che ci si immerge sempre più in questa terra piena di colori, di sapori e di profumi, in cui tutto è al tempo stesso bello e terribile, le emozioni, forti, emergono. Le affermazioni dell’autore si fanno più incisive, cambia anche il linguaggio, che diventa meno espositivo e più vibrante. Intenerisce e gratifica la favola vera dell’attore americano di origini siciliane (Vincent Schiavelli) che decide di andare a vivere nel paesino di origine del nonno. Una scelta fatta per non perdere di vista le cose veramente importanti. La propria anima, gli amici, l’amore, il gusto per la vita. Un uomo di una saggezza ancestrale, silvana. Ogni tanto nascono persone così e anche se muoiono troppo presto, ci ricordano come può essere la parte migliore dell’essere umano. Di certo l’autore ne racconta la storia perché sa che è importante sia diffusa, perché può dare la misura dei doni che scorrono nel sangue della Sicilia. In questa isola dove tutti i climi sono rappresentati, è possibile trovare praticamente ogni campione della razza umana. Un’astronave aliena non dovrebbe fare altro che svellere questo pezzo di terra dal mediterraneo per avere in mano davvero un ‘fetta’ del pianeta.



giovedì 9 ottobre 2008

Capitano Alatriste


Autore: Arturo Pérez-Reverte
Editore: Salani


“ Diego Alatriste y Tenorio, dopo aver combattuto nei vecchi battaglioni di fanteria durante le guerre delle Fiandre, tira a campare come spadaccino al soldo nell'elegante e corrotta Madrid del diciassettesimo secolo. Non è uno dei tanti veterani che vanno a zonzo spavaldi per la capitale millantando inverosimili gesta d'eroismo, e nemmeno uno degli spregiudicati sicari pronti a qualsiasi compromesso purché ben remunerato: il capitano Alatriste segue, con coerente freddezza, un codice d'onore tutto suo. Lo sprezzante sorriso che sembra una smorfia, lo sguardo chiaro come l'acqua, i lunghi silenzi, il fare rude e sbrigativo, Alatriste si ubriaca d'azione e di vino per celare la sua metafisica disperazione. È fiero, impavido, orgoglioso, amato e rispettato da molti amici, ma mortalmente odiato da altrettanti nemici, come il sinistro e implacabile inquisitore fra Emilio Bocanegra, lo spietato assassino Gualterio Malatesta, o lo scaltro e diabolico segretario del re, Luis de Alquézar. In un suggestivo scenario storico, le imprese di Alatriste ci trascinano negli intrighi di corte di una Spagna paradossale, padrona del mondo, ancora in preda a sogni di grandezza, ma già con il presentimento di un futuro nefasto. Viottoli bui, illuminati soltanto dal luccichio delle spade sguainate negli agguati, taverne in cui si scrivono sonetti tra baruffe e bottiglie di vino, cortili dove le rappresentazioni delle commedie di Lope de Vega finiscono a coltellate: è il 1623. Cominciano le avventure del Capitano Alatriste. “

Questo è per me il primo libro di Arturo Pérez-Reverte: ho ascoltato una sua intervista a 'tutti i colori del giallo' su RADIO2 e mi ha incuriosito al punto da acquistare, su IBS, alcuni sui libri. Sono felice di averlo fatto, di aver seguito il caso e l'ispirazione. Le sensazioni suscitate in me da questo libro sono state 'salgariane', ho riprovato le emozioni vissute leggendo il ‘Corsaro Nero’ o ‘Le tigri di Mompracem’. Anche loro erano uomini che avevano perso tutto e che si aggrappavano al loro onore come all'ultimo, vero tesoro; anch’essi personaggi tormentati e complessi, a volte implacabili, a volte straordinariamente generosi, mai mediocri, che sapevano suscitare solo intensi sentimenti: grande odio, grande amore o grande lealtà. Alatriste ricalca in pieno i personaggi meglio riusciti del grande scrittore. Non so se ciò sia  voluto: Pérez-Reverte cita esplicitamente Dumas ma non ci sono cenni a Salgari; a meno che l’intero personaggio, la sua dignità ,il suo senso dell’onore, la sua abilità con la spada, lo sprezzo della morte, il suo atteggiamento beffardo nei confronti del fato, la sua fondamentale ‘purezza’, malgrado tutto, sia tutta una macroscopica citazione. Io comunque l’ho vissuta così : le descrizioni, i ‘ferraiuoli’, le spade persino le ‘misericordie’ hanno riacceso in me emozioni adolescenziali ed eroiche. Ma se tutto ciò fosse frutto del caso, di una incredibile convergenza, quale meravigliosa, fortunata coincidenza per noi appassionati lettori, amanti di queste avventure lontanissime dalla mediocrità quotidiana. 



Sherlock Holmes contro Dracula



Autore: Watson, John H.
Curatore: Estleman, Loren D.
Editore: Gargoyle


"È l'anno 1890. Una nave fa naufragio sulla costa inglese, l'equipaggio è scomparso, il capitano è stato assassinato, l'unico passeggero è un sinistro cane nero. Il mistero, di cui nessuno riesce a venire a capo è pane per i denti dell'inimitabile Sherlock Holmes, ma per la prima volta nell'arco della sua esaltante carriera il grande detective è in difficoltà. Risulta evidente che gli uomini dell'equipaggio sono stati uccisi e gettati fuori bordo, ma cosa può spiegare l'espressione di orrore stampata sul volto del capitano, il suo fatale dissanguamento, e lo strano carico della nave - cinquanta casse di terra? Il gioco è aperto e Sherlock Holmes, assistito come sempre dal fedele Dottor Watson, si viene a trovare sulle tracce del re dei vampiri in persona - il Conte Dracula..."

Mi è piaciuto questo libro fin dalla copertina; ha toccato le corde del mio cuore già dalla tenera dedica all’attore Peter Cushing fatta dall’editore e dal traduttore della versione italiana, dedica che mi ha sorpreso e compiaciuto. Mi è piaciuto l’espediente del ritrovamento del manoscritto del dottor Watson, con annessa ricostruzione delle varie parentele, e pubblicazione da parte di un curatore, porto con grazia. Mi è piaciuta la bibliografia proposta dal curatore con la distinzione fra il canone, gli episodi citati ma mai scritti e gli episodi apocrifi. Mi è piaciuto, infine, il romanzo. L’autore è riuscito ricreare il linguaggio e le atmosfere tweed di Conan Doyle e leggerlo è stato un vero piacere, come gustare un dolce da tè che raramente viene preparato perché se ne è persa la ricetta. Intrigante l’accostamento tra l’algida mente di Sherlock e la potenza istintiva e ferina del Conte Dracula. Da questo incontro (e scontro) ciascuno dei due personaggi ne esce modificato, anche se sempre nei limiti canonici dei personaggi: per la prima volta, Holmes si trova in una situazione di cui non riesce circoscrivere l’intero perimetro, che non può controllare sino in fondo, malgrado le sempre fulgide deduzioni; emerge, sorprendentemente, una emotività controllata ma intensa del detective, dovuta senz’altro agli eventi straordinari (e illogici) che si trova a fronteggiare; in questo contesto così ‘emotivo’, lascia emergere il suo affetto per il fedele Watson in diverse occasioni; per contro Dracula appare all’inizio una presenza solo intuita ma oppressiva e spaventosa; prenderà sempre più corpo, ma verrà esaltato l’aspetto selvaggio, animalesco e sanguinario, più vicino al Conte Vlad storico e forse al personaggio inteso da Stoker, che non alla figura elegante e patinata trasmessaci, erroneamente a mio parere, dal cinema e da certa letteratura; alla fine Dracula fa pensare più ad un animale selvaggio (un lupo, forse), intelligente e potente sì, ma vincolato dalla sua natura, incapace di essere veramente padrone di sé e del proprio destino; poco a poco il conte perde il suo aspetto terrificante per giungere, quasi, a destare compassione. Non ho riconosciuto, invece, il personaggio di Van Helsing, presentato qui come un barone del vampiresco, preoccupato solo di mantenere la sua fama di esperto in materia; ma il personaggio è visto con gli occhi del buon dottor Watson, il quale senza dubbio non può che considerare arrogante chi contesti la competenza del suo idolo, Holmes, su qualunque argomento. Per ultimo desidero ringraziare la casa editrice Gargoyle (nome intrigante!) per aver pubblicato questo piacevolissimo libro e mi auguro che manterrà questa linea editoriale così affascinante e raffinata.


mercoledì 26 settembre 2007


Peperoncino (Tripterygion tripteronotus)


Castelsardo (SS), luglio 2007

Foto scattate da me sotto il lungomare Zirulia, con una Olympus miu S nell'involucro Impermeabile. Quello mostrato è un maschio con la livrea nuziale; la livrea della femmina è molto meno colorata poiché c'è un marcato dimorfismo sessuale. Il periodo riproduttivo va da maggio a luglio. Il maschio delimita un territorio di circa un metro di raggio su rocce protette dalle onde, con poche alghe, all'ombra di pareti verticali, ad una profondità che può variare dai 10 cm al metro. La posizione in cui l'ho trovato verificava esattamente tutte queste condizioni, come se il Peperoncino si fosse prima documentato.